Prima parte – Comprensione della lettura
TESTO A
«Selfie» è la parola del 2013
L’uso della definizione degli autoscatti al tempo dei social è cresciuto del 17mila per cento nell’ultimo anno
MILANO – Selfie: «Fotografia fatta a se stessi, solitamente scattata con uno smartphone o una webcam e poi condivisa sui social network». È questa la definizione che l’Oxford Dictionary dà di un tormentone social e mediatico degli ultimi anni, divenuto virale in questo 2013, il selfie, l’autoscatto ai tempi di Facebook e Instagram. La moda è tanto diffusa da convincere i redattori del dizionario più famoso al mondo (con la complicità di un algoritmo che ne ha verificato la ridondanza) che selfie sia proprio la parola più dirompente, utilizzata e nuova di questo 2013. Selfie batte peraltro altre abitudini legate alla Rete e alla condivisione: vince infatti su twerking, binge-watch e showrooming, rispettivamente relativi alla danza, all’indigestione da video e alla verifica nei negozi prima di acquistare un bene.
Le parole perdenti – Intanto gli esclusi: tutti termini nati negli ultimi mesi e inseriti nelle scorse settimane nella Bibbia di Oxford. La prima parola è twerking, la cui diffusione è scoppiata la scorsa estate, quando Miley Cyrus si è esibita scuotendo il didietro con la lingua di fuori, in un balletto goliardico che supera ogni timido ammiccamento. […]. Il secondo termine dell’anno è binge-watching, l’abitudine di guardare intere serie tv un episodio dietro l’altro per molte ore. Una maratona video trasversale, amata da più generazioni, che ha fatto nascere online classifiche aggiornate e consigli sulle serie che meritano più di altre queste estenuanti sedute davanti allo schermo. Il terzo termine è invece legato all’e-commerce e all’uso sempre più frequente, complici i siti di saldi e promozioni, di acquistare ogni sorta di bene online, dall’abbigliamento in poi. Lo showrooming infatti è semplicemente l’uso di recarsi in un punto vendita reale per provare o guardare dal vivo quell’oggetto che poi verrà acquistato online, possibilmente a un prezzo inferiore.
L’anno del selfie – Ma la parola star secondo l’Oxford Dictionaries e il suo software per verificare la popolarità di un termine è selfie: secondo il programma infatti il suo uso è cresciuto del 17mila per cento nell’ultimo anno, prima parola inglese tra le oltre 150 milioni monitorate ogni mese sul web. Complici del suo spopolare sono stati i social network e gli hashtag (#selfie, #selfy) usati per catalogare le immagini di sé pubblicate su Facebook, Twitter, Instagram. Negli ultimi tempi il selfie è stato declinato in vari modi: a partire dal vecchio autoscatto fatto tenendo la fotocamera in mano davanti al viso, si è passati ai programmi per specchiarsi nello smartphone. In loro assenza, viene ritratto il proprio viso nello specchio rotondo presente sulle curve in strada, oppure nello specchietto retrovisore dell’auto, fino ai pericolosi autoscatti al volante, o alle proprie gambe cotte al sole confuse ironicamente con i wurstel. La moda del selfie ha conquistato anche i personaggi famosi che non mancano di pubblicare scatti di sé fuori dalla ribalta, fino all’ultima e più rara passione: quella del «papal selfie», l’autoscatto in compagnia di Papa Francesco.
(www.corriere.it, 19/11/2013)
TESTO B
Gusto: un brodo di pollo
Ho passato qualche mese, anni fa, in un posto sotto l’equatore, in una nazione che si chiama Tanzania. Prima di andarci avevo imparato la lingua swahili che è mezzo di comunicazione buono per larga parte dell’Africa orientale.
Abitavo in un piccolo centro. Le ore della sera si trascorrevano sotto un vasto mandorlo indiano bevendo tè. Parlavo con gli uomini, ma le più allegre conversazioni erano con delle suore locali dai nomi sereni: Melanìa, Leocadìa. Erano voci di una lingua che accenta sempre la penultima vocale, che ha solo parole piane. Avevano un sorriso spalancato, pronto, riuscivo senza sforzo a farle ridere raccontando di neve, spaghetti, terremoto. Traducevo per loro proverbi della mia città: pe ’mmare nun ce stanno taverne, katika bahari hapana nyumba. Melanìa era come me, in mezzo ai trent’anni. I denti sani lucevano col bianco delle pupille, perché rideva a occhi aperti. Camminava oscillando per i piedi gonfi. Non le ho mai visto i capelli, sempre dentro la cuffia azzurra.
Il primo giorno del mio arrivo nel piccolo centro vidi a pochi passi un serpente. Era esile, verde vivo, lungo un metro. Mi scorse passando, si fermò e dopo un’esitazione si infilò sotto una pietra. Ero rimasto immobile, seduto su di una panca, attento solo a cercare di controllare il respiro. Volli chiamar gente, poi ci ripensai: che figura faccio? Ecco l’europeo arrivato fresco fresco che al primo serpentello chiede soccorso. Non volevo esordire così. Ma appena rividi qualcuno riferii con tono distaccato che avevo visto quel tale animale. «Dove?» chiese subito l’amico. In pochi minuti si era organizzata una piccola schiera di persone con bastoni. Sollevarono la pietra e uccisero il rettile che i libri chiamano mamba verde. Il suo colore lucente sbiadì velocemente, la pelle tesa si aggrinzì, come se gli andasse larga. Avrei rivisto più volte la scena che segue l’avvistamento di un serpente tra le case. Non scherzavano con le cose della natura, non l’ammansivano.
Di sera andavo a passeggiare dopo cena lungo un corso di acqua. Nel fracasso degli animali notturni, udivo ogni tanto dai cespugli il suono delicato di un campanellino che quando attaccava non smetteva presto. Nel buio delle sere senza luna suonava, suonava ed io mi sentivo avvisato da quel tintinnio. Di cosa non so più; ricordo solo che era trillo gentile, di quelli che in una stazione di provincia anticipano l’annuncio che sta passando in corsa un treno e non si fermerà.
Tornavo alla branda aspettando il sonno delle nove di sera, nel chiasso delle notti di palude sognavo senza suoni.
Una sera in una passeggiata sentii sul viso la carezza fulminea lieve di un’ala di pipistrello, il contatto più morbido che mi sia passato sulla faccia. Avevo avuto modo negli anni precedenti di dimenticare le carezze. Non feci in tempo a mobilitare il ribrezzo, provai nella sorpresa una confusa gratitudine per il buio e il suo tocco leggero. Per una nostalgia istantanea, dimenticai l’allarme. Se il corpo prova esilio è nella pelle.
Vennero le febbri. Sotto la dissenteria dell’ameba spuntò la malaria. Perdevo acqua e peso da tutti i pori, non riuscivo a ingoiare niente che non rigettassi. Penoso era il percorso fino alle latrine, reso incerto dal fatto che la malaria aveva infebbrato anche gli occhi, confondendo la vista. Dopo la prima settimana non ero più in grado di alzarmi.
Mi venivano a trovare le suore, le sentivo parlare del tempo dietro il velo della zanzariera. Quello era il mio confine e si infittiva.
I sensi erano rivolti all’interno, mi ascoltavo. Sorse in quelle notti senza sonno un odore mai prima sentito. Saliva dall’inguine, dalle ascelle, lo fiutavo continuamente immergendo le dita e annusandole. Era un sentore lontano, una palla di gomma morbida, il primo chewing gum e l’acido crudo dell’erba tagliata. Divenni ansioso di sentirlo. Scimmia veloce che accarezza in volo i rami, così il naso correva in quell’odore sui nervi chiusi e li toccava dentro. Non lentamente: mi spegnevo in fuga. Passava il tempo ed ero vicino al blocco renale, poca urina scura lo avvisava. L’odore mi riempì le narici, passava come incenso fresco sul mio quieto delirio. Per mare non c’erano taverne.
Venne Melanìa una sera. Portò un brodo di pollo. Non credo che mi disse cos’era, non credo che mi disse qualcosa. Sollevò il velo della zanzariera. Fuori c’era il caldo buio di sempre, io stavo sotto una coperta militare inglese di lana. Buttò tutto all’aria, rabbrividii dai modi più che dal freddo. Mi alzò a sedere in mezzo al letto, spinse fuori le mie gambe magre e sedendomi a fianco mi tenne fermo e forte con una stretta addosso a lei dalla quale non potevo cadere. Il mio corpo bianco ossuto spariva nella sua presa, nella sua mano scura stava tutta la mia spalla. Poi, cucchiaino dietro cucchiaino, me lo fece bere tutto, pure quello che ributtavo fuori e che raccoglieva in una bacinella sulle mie ginocchia.
Chissà dove aveva trovato quel pollo, chissà quanto le era costato. So oggi che per la disidratazione è l’alimento più adatto. In quel momento ero troppo debole per riuscire a rifiutarlo, lo subivo come una tortura alla quale non potevo scampare. Morire diventa scomodo se qualcuno ti vuole per forza salvare, pensavo bollendo di febbre addosso a lei.
Tornò a portarmene finché non fu consumato tutto quel pollo, fino all’ultima spremitura. Presi a gustarlo spingendo la lingua contro il palato. Aveva più sapore di quello che sono disposto ad attribuire a un brodo di pollo. L’abbraccio della sua spalla contro il mio corpo trasmetteva più forza di quella necessaria a sorreggermi. Nel suo zelo segreto ferveva un eccesso, uno spreco che non dava tregua. Era severa, brusca nei modi, come rimprovero di chi trascina via senza parlare.
Finirono le febbri, durava solo la dissenteria, salii su un aereo, le ho scritto qualche cartolina, qualche volta. La vita che da me svaporava distratta, profumata, mi fu rimessa dentro a cucchiaini, più mia di prima, immeritata, spesa.
(E. De Luca, Il contrario di uno, Feltrinelli, Milano 2003)
TESTO C
7 consigli per una migliore tutela dell’ambiente e per recuperare tanta plastica in più
1.Conserva la bellezza dell’ambiente. La plastica non inquina e non rilascia sostanze nocive, ma quando è abbandonata nell'ambiente è decisamente brutta. Se la trovi in mare, sulla spiaggia o nelle pinete, vuol dire che qualche maleducato ce l'ha lasciata. Raccoglila e collabora anche tu a preservare la bellezza e la pulizia del paesaggio.
2.Utilizza anche in spiaggia o nell’area pic-nic gli appositi contenitori della raccolta differenziata degli imballaggi in plastica. Se non li trovi, basta un piccolo sforzo: portali in paese, il 95% dei Comuni italiani ha attivato il servizio di RD.
3.Ricorda che gestire rifiuti in alta montagna, nelle aree protette o nelle spiagge libere più sperdute è sempre complesso e costoso. Riduci, prima di partire, gli imballaggi non indispensabili e non lasciare alcun rifiuto in loco.
4.Non dimenticare che la raccolta differenziata della plastica riguarda solo gli imballaggi, quindi bottiglie, barattoli, flaconi, sacchetti, buste, pellicole trasparenti, piatti e bicchieri monouso, vaschette.
Giocattoli, secchielli, ciabatte, canotti, palloni, occhiali, biro, pennarelli, borracce, attrezzi vari, quando sono rotti o non servono più, non vanno mai abbandonati dove capita, ma messi nel rifiuto indifferenziato.
5.Cerca di svuotare meglio che puoi gli imballaggi e, se è possibile, schiacciali prima di metterli nel contenitore della raccolta differenziata.
6.Informati sulle modalità della raccolta differenziata, non in tutti i Comuni funziona allo stesso modo. Non esitare a chiedere informazioni all'albergatore, al gestore del camping o dello stabilimento balneare, al padrone di casa o direttamente al Comune. Un piccolo gesto può fare la differenza.
7.Inserisci il servizio di raccolta differenziata nei tuoi criteri di scelta quando decidi dove passare le vacanze. Amministratori locali e operatori turistici saranno così più attenti e il guadagno sarà di tutti.
(www.corepla.it)
TESTO D
Il vero dono non vuole la reciprocità
Un gesto eversivo, che nasce dalla libertà e accende una relazione non generata dall'utilitarismo
Esiste ancora il dono, oggi? In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la caratterizzano, c’è ancora posto per l’arte del donare? Ecco una domanda a mio avviso decisiva: nell’educazione, nella trasmissione alle nuove generazioni della sapienza accumulata, c’è attenzione al dono e all’azione del donare come atto autentico di umanizzazione? C’è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare i rapporti reciproci tra umani, qualunque poi sia l’esito?
Da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi non c’è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per simulare gratuità e disinteresse là dove regna invece la legge del tornaconto. In un’epoca di abbondanza e di opulenza si può addirittura praticare l’atto del dono per comprare l’altro, per neutralizzarlo e togliergli la sua piena libertà.
Si può perfino usare il dono – pensate agli «aiuti umanitari» – per nascondere il male operante in una realtà che è la guerra. Questa ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il significato non è nuova: già nell’antichità si diceva « Timeo Danaos et dona ferentes », «Temo i Greci anche quando portano doni»… Ma c’è pure una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo si chiama «carità»: oggi si «dona» con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti – lontani! – per i quali vale la pena provare emozioni…
Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o nell’indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione che richiede di assumere un rischio. Ma il dono può anche essere pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può incatenare la libertà dell’altro invece di suscitarla. […].
Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare è un’arte che è sempre stata difficile: l’essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l’altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» – perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è – richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro.
Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere in cambio alcunché. Bastano queste poche parole per distinguere il «donare» dal «dare», perché nel dare c’è la vendita, lo scambio, il prestito. Nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono all’altro, indipendentemente dalla risposta di questo. Potrà darsi che il destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco, ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna reazione di gratitudine.
Donare appare dunque un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di risposta, ma io credo che il donare sia possibile perché l’uomo ha dentro di sé la capacità di compiere questa azione senza calcoli: è capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia tenuto a dare. È questa la grandezza della dignità della persona umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l’homo donator. Certo, c’è un rischio da assumere nell’atto del donare, ma questo rischio è assolutamente necessario per negare l’uomo autosufficiente, l’uomo autarchico. E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo. […]
(ridotto dall’articolo pubblicato il 16/9/2012 su www.lastampa.it che riporta uno stralcio della Lezione magistrale di Enzo Bianchi in occasione nella giornata conclusiva del Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo)
Seconda parte – Grammatica
TESTO E
Come scegliere una porta blindata
La porta blindata è un elemento fondamentale dell’abitazione e deve mantenere nel tempo tutte le sue qualità funzionali ed estetiche.
Oltre alla resistenza all’effrazione, caratteristica principale di questo prodotto, e un aspetto estetico curato e in sintonia con il gusto personale e l’ambiente d’inserimento, oggi ad un serramento blindato si richiedono anche specifiche prestazioni sotto il profilo dell’isolamento dal rumore, della capacità di isolare termicamente in funzione del risparmio energetico, e della tenuta alle intemperie.
La scelta della porta blindata, quindi, va ponderata valutandone tutte le caratteristiche prestazionali.
(www.torteroloere.it)