• Descrizione

    Il brano è la conclusione del romanzo Il visconte dimezzato (1952), prima opera della trilogia I nostri antenati. Entrambe le parti
 del visconte, il Gramo e il Buono, sono innamorate di Pamela, una giovane contadina. Nelle ultime pagine del romanzo viene annunciato il matrimonio della ragazza: resta però incerto chi tra le due metà del visconte sarà lo sposo. L’intero paese attende con ansia e curiosità lo scontro ormai inevitabile tra i due contendenti. Insieme al duello, però, giungerà anche un’imprevista quanto provvidenziale conclusione delle vicende.

  • Genere

    Romanzo fantastico

  • Luogo e tempo

    Terralba (Liguria); XVII-XVIII secolo

  • Personaggi

    Le due metà del visconte Medardo; il dottor Trelawney; Pamela; gli abitanti di Terralba

  1. sossopra: sottosopra, in uno stato di agitazione.

  2. il visconte: si tratta della metà cattiva, il Gramo, che aveva preso pieno possesso del castello e del potere di Medardo.

  3. il vagabondo: si tratta della metà buona, il Buono, che era stato curato da alcuni eremiti e, ritornato a Terralba, vi era rimasto in condizioni di povertà, sostenuto dalla carità degli abitanti.

  4. Io: il narratore è il nipote del visconte Medardo, che all’epoca dei fatti ha circa sette anni.

  5. di sghimbescio: storta, di traverso.

  6. Esaù: un ragazzo dell’età del narratore.

  7. mugghiavano: si lamentavano.

  8. a-fondo: colpo di scherma tirato con slancio contro l’avversario.

  9. Mastro Pietrochiodo: il falegname del paese.

  10. ugonotti: nome dato a partire dal XVI secolo ai protestanti francesi; fino al XVIII secolo, la Francia fu interessata da gravi guerre di religione, ed è il motivo per cui i due personaggi in questione si sono rifugiati a Terralba.

  11. balla: sacco di tela piuttosto grande.

  12. licheni... gomma: i licheni sono organismi vegetali che si sviluppano sulle rocce. La gomma è una sostanza gelatinosa che si forma sulla corteccia degli alberi a causa di una malattia.

  13. parate... finte: particolari movimenti di scherma che si mettono in atto per ingannare l’avversario.

  14. corretta maestria: precisa capacità.

  15. crivellare: riempire di buchi.

  16. elsa: impugnatura della spada.

  17. erpici: strumenti agricoli appuntiti, utilizzati per la semina.

  18. fendente: colpo di spada, sferrato di taglio e dall’alto verso il basso.

  19. imporporarsi: colorarsi di rosso, diventare del colore della porpora.

  20. riversi: accasciati a terra, distesi sulla schiena.

  21. rifuse: riunite.

Italo Calvino
Scontro tra due metà

Tutta Terralba fu sossopra, quando si seppe che Pamela si sposava. Chi diceva che sposava l’uno, chi diceva l’altro. I genitori di lei pareva facessero apposta per imbrogliar le idee. Certo, al castello stavano lustrando e ornando tutto come per una gran festa. E il visconte s’era fatto fare un abito di velluto nero con un grande sbuffo alla manica e un altro alla braca. Ma anche il vagabondo aveva fatto strigliare il povero mulo e s’era fatto rattoppare il gomito e il ginocchio. A ogni buon conto, in chiesa lucidarono tutti i candelieri. Pamela disse che non avrebbe lasciato il bosco che al momento del corteo nuziale. Io facevo le commissioni per il corredo. Si cucì un vestito bianco con il velo e lo strascico lunghissimo e si fece corona e cintura di spighe di lavanda. Poiché di velo le avanzava ancora qualche metro, fece una veste da sposa per la capra e una veste da sposa anche per l’anatra, e corse così per il bosco, seguita dalle bestie, finché il velo non si strappò tutto tra i rami, e lo strascico non raccolse tutti gli aghi di pino e i ricci di castagne che seccavano per i sentieri. Ma la notte prima del matrimonio era pensierosa e un po’spaurita. Seduta in cima a una collinetta senz’alberi, con lo strascico avvolto attorno ai piedi, la coroncina di lavanda di sghimbescio, poggiava il mento su una mano e guardava i boschi intorno sospirando. Io ero sempre con lei perché dovevo fare da paggetto, insieme a Esaù che però non si faceva mai vedere. «Chi sposerai, Pamela?» le chiesi. «Non so», lei disse, «non so proprio che succederà. Andrà bene? Andrà male?» Dai boschi si levava ora una specie di grido gutturale, ora un sospiro. Erano i due pretendenti dimezzati, che in preda all’eccitazione della vigilia vagavano per anfratti e dirupi del bosco, avvolti nei neri mantelli, l’uno sul suo magro cavallo, l’altro sul suo mulo spelacchiato, e mugghiavano e sospiravano tutti presi nelle loro ansiose fantasticherie. E il cavallo saltava per balze e frane, il mulo s’arrampicava per pendii e versanti, senza che mai i due cavalieri s’incontrassero. Finché, all’alba, il cavallo spinto al galoppo non si azzoppò giù per un burrone; e il Gramo non poté arrivare in tempo alle nozze. Il mulo invece andava piano e sano, e il Buono arrivò puntuale in chiesa, proprio mentre giungeva la sposa con lo strascico sorretto da me e da Esaù che si faceva trascinare. A veder arrivare come sposo soltanto il Buono che s’appoggiava alla sua stampella, la folla rimase un po’delusa. Ma il matrimonio fu regolarmente celebrato, gli sposi dissero e si scambiarono l’anello, e il prete disse: «Medardo di Terralba e Pamela Marcolfi, io vi congiungo in matrimonio». In quella dal fondo della navata, sorreggendosi alla gruccia, entrò il visconte, con l’abito nuovo di velluto a sbuffi zuppo d’acqua e lacero. E disse: «Medardo di Terralba sono io e Pamela è mia moglie». Il Buono arrancò di fronte a lui. «No, il Medardo che ha sposato Pamela sono io». Il Gramo buttò via la stampella e mise mano alla spada. Al Buono non restava che fare altrettanto. «In guardia!» Il Gramo si lanciò in un a-fondo, il Buono si chiuse in difesa, ma erano già rotolati per terra tutti e due. Convennero che era impossibile battersi tenendosi in equilibrio su una gamba sola. Bisognava rimandare il duello per poterlo preparare meglio. «E io sapete cosa faccio?» disse Pamela «me ne torno al bosco». E prese la corsa via dalla chiesa, senza più paggetti che le reggessero lo strascico. Sul ponte trovò la capra e l’anatra che stavano aspettando e s’affiancarono a lei trotterellando. Il duello fu fissato per l’indomani all’alba al Prato delle Monache. Mastro Pietrochiodo inventò una specie di gamba di compasso, che fissata alla cintura dei dimezzati permetteva loro di star ritti e di spostarsi e pure d’inclinare la persona avanti e indietro, tenendo infissa la punta nel terreno per star fermi. Il lebbroso Galateo, che da sano era stato un gentiluomo, fece da giudice d’armi; i padrini del Gramo furono il padre di Pamela e il caposbirro; i padrini del Buono due ugonotti. Il dottor Trelawney assicurò l’assistenza, e venne con una balla di bende e una damigiana di balsamo, come avesse da curare una battaglia. Buon per me, che dovendo aiutarlo a portar tutta quella roba potei assistere allo scontro. C’era l’alba verdastra; sul prato i due sottili duellanti neri erano fermi con le spade sull’attenti. Il lebbroso soffiò il corno: era il segnale; il cielo vibrò come una membrana tesa, i ghiri nelle tane affondarono le unghie nel terriccio, le gazze senza togliere il capo di sotto l’ala si strapparono una penna dall’ascella facendosi dolore, e la bocca del lombrico mangiò la propria coda, e la vipera si punse coi suoi denti, e la vespa si ruppe l’aculeo sulla pietra, e ogni cosa si voltava contro se stessa, la brina delle pozze ghiacciava, i licheni diventavano pietra e le pietre lichene, la foglia secca diventava terra, e la gomma spessa e dura uccideva senza scampo gli alberi. Così l’uomo s’avventava contro di sé, con entrambe le mani armate d’una spada. Ancora una volta Pietrochiodo aveva lavorato da maestro: i compassi disegnavano cerchi sul prato e gli schermidori si lanciavano in assalti scattanti e legnosi, in parate e in finte. Ma non si toccavano. In ogni a-fondo, la punta della spada pareva dirigersi sicura verso il mantello svolazzante dell’avversario, ognuno sembrava s’ostinasse a tirare dalla parte in cui non c’era nulla, cioè dalla parte dove avrebbe dovuto esser lui stesso. Certo, se invece di mezzi duellanti fossero stati duellanti interi, si sarebbero feriti chissà quante volte. Il Gramo si batteva con rabbiosa ferocia, eppure non riusciva mai a portare i suoi attacchi dove davvero era il suo nemico; il Buono aveva la corretta maestria dei mancini, ma non faceva che crivellare il mantello del visconte. A un certo punto si trovarono elsa contro elsa: le punte di compasso erano infitte nel suolo come erpici. Il Gramo si liberò di scatto e già stava perdendo l’equilibrio e rotolando al suolo, quando riuscì a menare un terribile fendente, non proprio addosso all’avversario, ma quasi: un fendente parallelo alla linea che interrompeva il corpo del Buono, e tanto vicino a essa che non si capì subito se era più in qua o più in là. Ma presto vedemmo il corpo sotto il mantello imporporarsi di sangue dalla testa all’attaccatura della gamba e non ci furono più dubbi. Il Buono s’accasciò, ma cadendo, in un’ultima movenza ampia e quasi pietosa, abbatté la spada anch’egli vicinissimo al rivale, dalla testa all’addome, tra il punto in cui il corpo del Gramo non c’era e il punto in cui prendeva a esserci. Anche il corpo del Gramo ora buttava sangue per tutta l’enorme antica spaccatura: i fendenti dell’uno e dell’altro avevano rotto di nuovo tutte le vene e riaperto la ferita che li aveva divisi, nelle sue due facce. Ora giacevano riversi; e i sangui che già erano stati uno solo ritornavano a mescolarsi per il prato. Tutto preso da quest’orrenda vista non avevo badato a Trelawney, quando m’accorsi che il dottore stava spiccando salti di gioia con le sue gambe da grillo, battendo le mani e gridando: «È salvo! È salvo! Lasciate fare a me». Dopo mezz’ora riportammo in barella al castello un unico ferito. Il Gramo e il Buono erano bendati strettamente assieme; il dottore aveva avuto cura di far combaciare tutti i visceri e le arterie dell’una parte e dell’altra, e poi con un chilometro di bende li aveva legati così stretti che sembrava, più che un ferito, un antico morto imbalsamato. Mio zio fu vegliato giorni e notti tra la morte e la vita. Un mattino, guardando quel viso che una linea rossa attraversava dalla fronte al mento, continuando poi giù per il collo, fu la balia Sebastiana a dire: «Ecco: s’è mosso». Un sussulto di lineamenti stava infatti percorrendo il volto di mio zio, e il dottore pianse di gioia al vedere che si trasmetteva da una guancia all’altra. Alla fine Medardo schiuse gli occhi, le labbra: dapprincipio la sua espressione era stravolta: aveva un occhio aggrottato e l’altro supplice, la fronte qua corrugata serena, la bocca sorrideva da un angolo e dall’altro digrignava i denti. Poi a poco a poco ritornò simmetrico. Il dottor Trelawney disse: «Ora è guarito». Ed esclamò Pamela: «Finalmente avrò uno sposo con tutti gli attributi». Così mio zio Medardo ritornò uomo intero, cattivo buono, un miscuglio di cattiveria e bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello ch’era prima di esser dimezzato. Ma aveva l’esperienza dell’una e l’altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio. Ebbe vita felice, molti figli e un giusto governo. Anche la nostra vita mutò in meglio. Forse ci s’aspettava che, tornato intero il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.

Italo Calvino,

I nostri antenati, Mondadori, 2000

Editore

Ciao! Hai letto attentamente il brano? Allora saprai rispondere a questa semplice domanda. Quale metà del corpo del visconte è Medardo il Buono?